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Il segreto della felicità non è di far sempre ciò che si vuole, ma di voler sempre ciò che si fa.

Lev Tolstoj

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Sono rivolti all’area della Neuropsicologia, ai Disagi Psicologici legati a situazioni stressanti, problematiche di Coppia (conflitti e difficoltà di comunicazione), situazioni di Disagio Scolastico o Lavorativo e Disagi Familiari

…Inoltre offriamo servizi di ripetizioni per materie scolastiche tecnico-scientifiche e umanistiche per tutti gli studenti, dalle elementari alle superiori!

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I VIDEOGIOCHI: ECCITANTI O RILASSANTI?

Lo scopo di questo breve articolo sarà quello di fare più chiarezza nella lotta fra coloro che sostengono che i videogiochi a contenuto violento (da qui in avanti videogiochi violenti) facciano diventare aggressivi (nelle manifestazioni di vario genere) e chi pensa siano un mezzo di scarica di aggressività latente.

Assumiamo due presupposti di base, per cercare di dare voce a entrambe le ipotesi:

  1. Videogiocare significa fare un’esperienza. Questa esperienza può essere decontestualizzata dal virtuale e generalizzata al mondo reale.
  2. Le situazioni prese in esame valgono per tutte le persone prive di patologie psichiche o di personalità.

QUALI SONO I FATTORI IN GIOCO?

Immaginiamo che l’intento di giocare sia quello di divertirsi; pertanto, cosa fa divertire un videogiocatore?

Nel momento in cui ci si appresta a giocare, si ha un certo mood che potrà influire nella costruzione dell’esperienza videoludica.

Questa esperienza viene realizzata grazie al fatto che il videogiocatore si immedesimi totalmente nel ruolo interpretato virtualmente, costruendo una rappresentazione del rapporto tra la parte di sé che interpreta il personaggio e gli altri.

È proprio questa interpretazione di ruolo che permette di spostare il mood sullo stato conflittuale in modo da vedere sé stessi come buoni e gli altri come malvagi da distruggere, permettendo di divertirsi svincolandosi dal sentirsi cattivi!

COSA IMPEDISCE LA GENERALIZZAZIONE DEL COMPORTAMENTO DISTRUTTIVO DAL MONDO VIRTUALE AL MONDO REALE?

Bisogna innanzitutto distinguere quelle che sono le categorie generali di videogiochi violenti; e sono sostanzialmente due: videogiochi violenti in cui si fanno cose socialmente inaccettabili nel mondo reale (commettere azioni criminali, come ad esempio GTAV) e videogiochi violenti che nel mondo reale sarebbero socialmente legittimati (catturare criminali, difendere innocenti, come ad esempio Assassin’s Creed).

Perché questa differenza? Perché nel caso della prima categoria di videogiochi (che possiamo definire fuorilegge), l’illegalità viene ancora di più scoraggiata dalla moralità e dalla forza del vincolo normativo.

Cosa s’intende per forza del vincolo normativo? Per forza del vincolo normativo intendiamo la forza con cui la socialità, la cultura d’appartenenza e il confronto coi pari, possano giustificare la riproduzione di manifestazioni aggressive, in qualsiasi forma: aggressività verbale, incremento delle palpitazioni con attivazione fisiologica, e così via.

Pertanto, più è forte questo vincolo, minori sono le possibilità che l’aggressività si manifesti e non solo; recenti ricerche, hanno dimostrato che anche la presenza di stati mentali conflittuali già esistenti (il mood di cui parlavamo sopra) prima di videogiocare vengano assimilati al videogioco e quindi inibiti per lo stesso meccanismo di vincolo!

In conclusione si può dire che i videogiochi non portano allo sviluppo di aggressività (con le dovute eccezioni di alcuni soggetti con patologie preesistenti)! In tutti i casi, tutte le tipologie di videogiochi violenti permettono sì di generare aggressività ma anche di scaricarla in corso; e per coloro che invece sono stressati già prima di giocare, avrà lo stesso effetto!
Giocate anche voi!

Dott. Giuseppe Caranna



Tutte le immagini presenti in questo articolo appartengono ai rispettivi proprietari.

CONVIVERE CON L’ALZHEIMER DURANTE IL CORONAVIRUS: Consigli per le famiglie

Nelle famiglie, in questo momento di estremo disagio, i sentimenti di frustrazione, di inadeguatezza, di sconforto, di abbandono rischiano di prendere il sopravvento e il venir meno degli aiuti riservati ai caregiver (quali ad es. i Centri Diurni) può alla lunga prosciugare le loro risorse, in quanto il paziente dipende totalmente dal suo familiare, con ricadute importanti sulla salute dei malati stessi.

Per una persona affetta da demenza stare a casa non è così semplice. Chi ha un familiare con questa malattia sa bene che il movimento è fondamentale. Nei momenti più difficili della nostra quotidianità basta una passeggiata, un giro in auto, piccole strategie che aiutano a contenere i disturbi del comportamento e che ora non si possono più utilizzare. La quotidianità però, inevitabilmente, ha subito delle enormi modifiche e, per questo il compito del caregiver è di mantenere una routine giornaliera strutturando la giornata del proprio familiare che lo rassicura poiché i disturbi comportamentali sono spesso associati a cambiamenti della routine. Ciò vuol dire fissare e rispettare per esempio gli orari delle attività, dei pasti e del riposo. In questo modo sarà più semplice anche ridurre la comparsa di quei sintomi che, nelle persone affette da una demenza, spesso si manifestano dall’ora del tramonto in avanti.

Le abitudini sono fondamentali per i malati di demenza: la ritualità delle giornate crea sicurezza e, in parte, compensa le difficoltà.

Cosa possiamo fare per strutturare la giornata?

  • Cerchiamo di non tenere la tv costantemente accesa su tg e notiziari: il continuo ripetersi di termini come “morti”, “emergenza”, “anziani”, ecc. potrebbe creare loro inquietudine e, di conseguenza, agitazione, anche se vi hanno dato segno di non comprendere la gravità della situazione.
  • Coinvolgiamo il nostro caro in piccoli lavori domestici (riordino cassetti, stoviglie e biancheria), nella preparazione dei pasti, in semplici lavori di bricolage o lavoretti creativi (mandala, puzzles).
  • Telefoniamo o videochiamiamo parenti e amici tramite tablet o smartphone.
  • Un’altra attività è rappresentata dal recupero della memoria e della riscoperta del passato: utilizziamo vecchi album fotografici e anche oggetti legati a importanti ricordi come gioielli e abiti che aiutano a recuperare memorie di fatti personali ed esperienze di vita.
  • Il tempo può essere riempito anche con la musica, prediligendo quella che la persona apprezzava e che potrebbe ricordare più facilmente.
  • Non trascuriamo il movimento; si può, ad esempio, camminare lungo il corridoio, il terrazzo o negli spazi più ampi della propria casa o eseguire esercizi di ginnastica dolce.

In tutte le attività che proponiamo ai nostri cari cerchiamo di esserci cooperando nella realizzazione del compito senza sostituirci a loro, accompagniamoli guidando e commentando con calma e dolcezza le loro e le nostre azioni.


Dott.ssa Antenucci Simona



(FONTI: Ordine degli Psicologi del Veneto – https://www.ordinepsicologiveneto.it/)

Il Sostegno Psicologico e i Bisogni del Caregiver


Il Familiare che si Prende Cura

La demenza è una malattia che coinvolge tutta la famiglia sia per l’impegno assistenziale che per gli aspetti emotivi e relazionali. Il Caregiver è colui o colei che “fornisce cure”, accudisce cioè qualcuno che ha subìto una diminuzione o perdita di autonomia per vari motivi (demenza, disabilità, ecc.) è, dunque, un’attività difficile e destabilizzante. Come emerge dalla maggior parte degli studi al riguardo, il caregiver esperisce rabbia, stanchezza, senso di colpa (per il timore di non essere adeguato al compito) o percepisce una propria supposta “inutilità”. Dal punto di vista psicologico, i sintomi depressivi e i problemi d’ansia sono il vissuto più diffuso nel caregiving. La tensione del caregiver finisce per manifestarsi anche sul piano fisico ed è quindi più facile trovare in queste persone problemi gastrici, mal di testa e problematiche che spesso derivano dal non avere tempo e risorse per poter curare se stessi.

Dal momento della diagnosi, il familiare si sente inondato da una serie di interrogativi e problematiche che rischiano di farlo sentire solo come in “un tunnel buio senza uscita”. La conoscenza della malattia, delle risorse a disposizione e i consigli su come gestire i problemi assistenziali possono attenuare il senso di frustrazione provato in alcune fasi dalla diagnosi al percorso di cura.

Nell’incontro con il caregiver, dopo una prima fase di accoglienza e contenimento, è necessario aiutare il familiare a pianificare l’impegno che dovranno investire nell’assistenza del malato, che può anche durare per molti anni. È importante fare i conti con le proprie forze e con le proprie energie, la persona non deve pensare di essere da sola, chiedere un aiuto non significa non essere in grado di assistere il proprio familiare, ma riconoscere e rispettare i propri limiti e progettare un tipo di assistenza che veda coinvolti più soggetti (come parenti, amici o personale qualificato).

Un bisogno preminente dei caregivers familiari è quello di ricevere informazioni soddisfacenti per raggiungere o ampliare l’insieme delle conoscenze sulla patologia (sintomi ed evoluzione), sui trattamenti anche non farmacologici e sulla diagnosi (Rosa E et al., 2010; Carling-Jenkins R et al., 2012). Fornire questo genere di informazioni all’interno di un setting clinico favorisce non solo un aiuto funzionale alla risoluzione di un problema impellente ma anche al conseguimento di una visione più ampia per soddisfare il “bisogno di pianificare e anticipare le sfide future” e le decisioni complesse che interessano il ruolo di caregiver primario, conferendogli un senso di “padronanza” sugli eventi (Samia LW et al., 2012).

Un altro importante bisogno del caregiver è quello di acquisire efficaci strategie di coping per affrontare cambi di ruolo e modificazioni dello stile di vita, gestire lo stress ed elaborare reazioni emotive (Rosa E, et al., 2010; Carling-Jenkins R et al., 2012; Samia LW et al., 2012); l’utilizzo di strategie di coping efficaci, volte a migliorare l’elaborazione della perdita relazionale del caregiver con il proprio caro e l’accettazione dei cambi di ruolo e della patologia, sembra essere correlata a una riduzione del carico emozionale del familiare stesso, così come riportato in un precedente studio (Callahan CM et al., 2007).

Ciò che Desejo propone è un lavoro clinico di ascolto, accoglimento e contenimento di angosce e paure del caregiver che lo accompagneranno nell’accettazione della “nuova situazione”, all’interno di un percorso integrato di supporto e sostegno psicologico ma anche educativo e di trasmissione delle informazioni che rassicurino e aiutino il caregiver a comprendere cosa stia cambiando.

 
Dott.ssa Antenucci Simona – Psicologa
 

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